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Dicono di Max: Paolo Fresu

Paolo Fresu è jazzista di fama mondiale e tra i musicisti più apprezzati del panorama italiano. Trombettista e flicornista, nel 1990 viene nominato miglior musicista italiano ed ottiene anche la palma di miglior gruppo (il Paolo Fresu Quintet).

Riportiamo il testo di un ricordo che ha condiviso con MUJIC in occasione di un evento organizzato per ricordare il grande sax alto.

Ho conosciuto Massimo Urbani nella metà degli anni Ottanta e la collaborazione con lui ha enormemente arricchito la mia vita umana e musicale.

Avevamo suonato assieme qualche volta prima di entrare a fare parte del Quintetto di Giovanni Tommaso.

Ricordo in particolare una jam session al Salt Peanuts di Firenze con Luca Flores al pianoforte. Max attaccò una versione di Cherokee talmente veloce che io riuscii a malapena a suonare il tema! Sapevo della sua bravura e avevo ascoltato qualche registrazione ma in quella occasione mi resi conto di avere al mio fianco un genio del sassofono che suonava con una irruenza mai vista.

Quando il bassista Giovanni Tommaso mi chiamò per entrare nel suo quintetto assieme a Massimo, Danilo Rea e Roberto Gatto, il suo invito arrivò inaspettato e mi riempì di orgoglio. Se fino ad allora avevo fatto parte di gruppi musicalmente aperti e indefinibili sul piano stilistico, adesso mi invitavano di un progetto marcatamente bebop al fianco di un grandissimo artista come Massimo Urbani e con una ritmica eccellente. Entrammo subito in studio per registrare Via GT che sarebbe uscito subito dopo per l’italiana Red Records e non nego che mi sentii subito un po’ a disagio. Ero timido e introverso e per giunta sapevo di venire da un’altra tradizione musicale, e la presenza di Massimo Urbani mi incuteva non poco timore. Del resto, Max era da sempre un idolo per tutti noi e durante la seduta di incisione nei vecchi studi romani della RCA mi sembrò di toccare il cielo con un dito.

L’anno successivo, dopo una serie di concerti, partimmo per una tournée negli Stati Uniti. Ricordo nitidamente la mattina della partenza dall’aeroporto di Fiumicino: Massimo aveva trovato negli anfratti della sua giacca tutta una serie di immaginette di santi e madonne che la nonna gli aveva infilato durante la notte, meticolosamente e di nascosto, in tutte le tasche. Icone che avrebbero dovuto proteggerlo durante quel lungo viaggio in paesi così lontani, e per questo Massimo, appena sbarcato a New York, comprò una bella e grande pentola per l’amata nonna… pentola che si portò in giro per circa dodici giorni durante il viaggio in terra d’America.

In North Carolina suonammo nelle università di Durham e Winston-Salem, mentre a New York ci esibimmo per due set al mitico Blue Note alla presenza di molti giapponesi ma anche di diversi musicisti tra i quali Lee Konitz.

A Boston invece suonammo nel piccolo auditorium della famosa Berklee School of Music e divisi la stanza dell’Hotel Hilton con Massimo che, la seconda e ultima sera del tour, si ritrovò seminudo in corridoio a bussare disperatamente alla mia porta. Era uscito per prendere una Coca-Cola da quei dispensatori di ghiaccio e bevande che si trovano ai piani degli alberghi americani ma si era dimenticato di prendere la chiave e io dormivo sonoramente con i tappi nelle orecchie perché lui durante la notte russava troppo forte… Un nero grande e grosso della security lo beccò in quello stato e alla domanda “Who are you?” Max continuò a ripetere nel suo inglese maccheronico: “I’m Max… altosax!”.

A parte la bravura però sono sempre state la generosità e l’umanità di Massimo a colpirmi, oltre alla sua irruenza e alla sua poesia. L’ho scritto in un testo di presentazione per una serie di concerti alla Casa del jazz di Roma dedicati a lui: «Massimo era l’uomo degli estremi, nel bene e nel male, ma alla fine sempre pronto e gentile con me che ero agli inizi.

Ho appreso molto da lui e ho appreso soprattutto l’arte del fare posto all’esigenza e all’urgenza creativa senza dimenticare il colore del suono e, anche se non sempre, la magia dello spazio. Massimo è stato il predecessore del jazz odierno. Di quel jazz che ridiventa musica popolare com’era stato dagli anni Venti fino agli anni Sessanta. Max è stato forse il primo musicista del dopoguerra a venire dal popolo e dalla borgata come io vengo dalla campagna. Un musicista visionario che si era fatto da solo e che non doveva niente a nessuno! Anticipando i tempi e vivendo intensamente la vita artistica sporcandosi le mani come aveva fatto Bird, la sua musa ispiratrice.

Forse oggi Massimo sarebbe contento di vedere tanti jazzisti italiani che si fanno onore nel mondo e che hanno finalmente successo anche in Italia. Sarebbe contento di sapere che se ciò accade è anche merito suo.”

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